Elogio delle erbacce: Momordica balsamina
Nell’Hypnerotomachia Poliphili, a pag. 151 si legge: “Non osavo più guardarla nei suoi occhi luminosi perché, ogni volta che la fissavo, mi sentivo violentare dall’incredibile bellezza del suo incantevole sguardo, e se per caso i suoi occhi radiosi si incontravano scambievolmente con i miei, tutto, per alcuni istanti, si sdoppiava alla vista prima che il tremulo battito degli occhi tornasse normale e potessi vedere di nuovo. Per ciò, già del tutto vinto come predata spoglia, ero disposto ad afferrare con il pugno un ciuffo d’erba fresca e a offrirglielo supplice dicendo: <Herbam do>.
Benché, nel silenzio della mente, avessi già deciso di concederle libero accesso spalancandole la porta della mia anima predestinata, all’improvviso mi squarciò l’umile, ardente petto, come il rosso frutto maturo della momordica ovvero caranza, quando prima si rompe e poi, allargandosi successivamente la crepatura, si cretta tutta.” (traduzione di Marco Ariani e Mino Gabriele).
L’incunabolo stampato a Venezia nel 1499 da Aldo Manuzio, ancora una volta si rivela una fonte inesauribile di studi specifici ed ancora una volta ha sollecitato la mia curiosità. La pianta descritta nel paragone dal Polifilo è una pianta infestante (per questo motivo si trova nell’elogio delle erbacce) appartenente alla famiglia delle Cucurbitaceae con 82 specie provenienti dalle foreste tropicali umide dell’Africa, dell’Asia e delle isole del Pacifico, dal livello del mare fino a circa 1000 m di altitudine.
E’ molto interessante trovare questo vegetale nell’Hypnerotomachia perché all’epoca si trattava di una pianta di importazione recentissima (a dimostrazione della vasta cultura dell’autore). Molto probabilmente la fonte (come per la maggior parte delle piante citate) è il Liber de simplicibus del medico Nicolò Roccabonella, nato a Conegliano intorno al 1386 e morto a Venezia verso il 1459. L’erbario è un manoscritto della prima metà del Quattrocento, che esamina 458 piante rappresentate a piena pagina e distinte dal testo esplicativo in una pagina separata: si tratta del modello adottato nelle figurazioni tardoantiche del De materia medica di Dioscoride, composto nel 514 per Anicia Giuliana a Costantinopoli. La rappresentazione nell’erbario del Roccabonella si discosta notevolmente dalle figure approssimate dei repertori di semplici medievali, preannunciando la resa fedele delle piante alla realtà, tipica degli erbari dei secoli successivi.
L’illustrazione del vegetale nel Roccabonella non è rappresentata con il frutto spaccato, per cui si può ipotizzare una conoscenza diretta della pianta da parte dell’autore del Polifilo. Nel 1543 la Momordica balsamina è raffigurata e descritta da Leonhart Fuchs nel Nuovo Erbario, si incontra anche nei Discorsi di Pietro Andrea Mattioli e nell’erbario di Ulisse Aldrovandi, entrambi della seconda metà del Cinquecento, mentre si trova all’inizio del Seicento nel Libro delle Piante di Basilius Besler. Ma questi magnifici erbari sono tutti postumi al nostro incunabolo.
Il nome della momordica deriva dal latino mordeo (perfetto momordi), che significa addentare, aggrappare perché è una pianta rampicante con i suoi numerosi viticci. Due specie sono coltivate nei giardini per i loro frutti ornamentali e per i delicati fiori gialli: Momordica balsamina e Momordica charantia. La prima ha frutti ovato-acuti lunghi 6-7 cm di colore giallo arancio; la seconda ha frutti più grandi lunghi 15-18 cm, giallastri e appuntiti. Le foglie, che ricordano quelle della vite, sono alterne, palmato-lobate e profondamente divise in cinque-nove lobi acuti e dentati. La pianta è un rampicante erbaceo annuale con radice a fittone. Il fusto è ramificato, sottile, rampicante – può raggiungere anche i due metri di altezza – ed è munito di lunghi viticci per ancorarsi. Il frutto consiste in una bacca pendula, cava, con la superficie percorsa da costole longitudinali con tubercoli triangolari, che arrivato a maturità si apre spontaneamente in tre valve per scoprire i semi ricoperti da un arillo di colore rosso vivo, costituito da una polpa umida e dolce per attirare gli uccelli. I frutti della Momordica charantia, per essere mangiati, devono essere raccolti prima che cambino colore da verde a giallo, infatti maturando diventano immangiabili e tossici. Sono molto utilizzati nelle ricette delle zone di coltivazione: vengono posti in acqua salata per perdere l’amaro e quindi cotti in diversi modi come le foglie. I fiori e i giovani germogli vengono utilizzati per aromatizzare varie pietanze.
Ci troviamo di fronte ad una pianta miracolosa: non solo risolve il problema del depauperamento del suolo dai microelementi, ma è una pianta alimentare ad elevato valore proteico, basso contenuto lipidico e fonte di fibre. Possiede molto potassio, regola l’ipertensione, stimola il metabolismo e cura i problemi cardiovascolari. Tutte le parti della pianta sono utilizzabili in fitoterapia perché contengono flavonoidi, glucosidi, steroidi, terpeni e saponine, che sono anti-HIV, antidiarroici, antisettici, antibatterici, antivirali, antinfiammatori, antimicrobici, antiossidanti, hanno proprietà analgesiche, curano il fegato ma soprattutto sconfiggono il diabete mellito. Le foglie contengono 17 aminoacidi e sono ricche di potassio, magnesio, fosforo, calcio, sodio, zinco, manganese e ferro. Sembra inoltre che alcune sostanze della momordica possano curare alcuni tumori.
La pianta si presta anche ad un uso ornamentale per il suo fogliame ed i suoi curiosi frutti. Si possono creare degli schermi temporanei, nel periodo estivo, data la velocità di crescita e l’ampiezza delle foglie di un bel colore verde brillante.
La Momordica charantia rappresenta un importante fonte alimentare (oltre che medicinale) in diverse regioni tropicali, dove è ampiamente utilizzata e conosciuta sotto diversi nomi: nelle Filippine è chiamata Ampalaya o “Bitter melon” (nome usato in tutte le aree di influenza inglese), in India Karela (l’uso alimentare in questa nazione è talmente diffuso che le ricette sono numerosissime).
Solo recentemente questa pianta prodigiosa ha attirato l’attenzione del mondo occidentale: abbiamo perso più di cinquecento anni dalla segnalazione fatta dall’autore dell’ Hypnerotomachia Poliphili.
Post scriptum.
L’espressione latina herbam dare significa “darsi per vinto, cedere la palma” e trovo molto interessante che gli Antichi Romani attribuissero al gesto di raccogliere un ciuffo d’erba il significato dell’arrendersi e quindi della ricerca della pace. Si potrebbe ipotizzare che dietro quell’erba ci sia la volontà di non belligeranza ed un futuro dedito alla cura della terra.
Beatrice Venturini Sylos Labini
Le foto che accompagnano l’articolo sono dell’autrice.
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