Elogio delle erbacce: l’aconito
Questa estate, finalmente, ho incontrato sull’Alpe di Siusi un fiore straordinario blu-viola a forma di elmo: l’aconito. Pianta tanto bella quanto velenosa. Era lì, ai bordi del sentiero, vicino ad un piccolo ruscello, a far bella mostra di sé e ad incantare chi gli passava vicino. I fiori formano un denso racemo, irregolarmente ramificato, alto da 20 a 30 centimetri. Il suo nome scientifico è Aconitum napellus, appartiene alla famiglia delle Ranuncolaceae ed è una pianta erbacea perenne alta 50-150 cm. Anche le foglie sono bellissime di un verde scuro brillante, che contrasta perfettamente con il blu intenso del fiore: sono palmate, divise fino quasi alla base in 5-7 lobi. Il frutto è composto da tre follicoli che si aprono mostrando semi piccoli, neri ed angolosi. La radice è un tubero che ogni anno muore ed accanto ne cresce uno nuovo: è la parte della pianta che contiene la più alta percentuale di principi attivi (alcaloidi).
L’etimologia del nome dal greco akòniton è di incerta derivazione perché potrebbe derivare sia da akòne che vuol dire “pietra”, con allusione ai luoghi dove cresceva nell’antica Grecia, sia da konè che indica ciò che uccide senza possibilità di rimedio. Secondo un’altra interpretazione si riferirebbe al nome della località greca di Acona, porto di Eraclea in Bitinia, dove si pensa che la pianta sia stata ritrovata. Il secondo nome napellus è il diminutivo latino di napus, che significa rapa, per le radici che sono rigonfie a forma di rapa.
Fin dall’antichità l’aconito è stato usato sia come veleno che come pianta magica. La mitologia vuole che sia nato dalla bava del cane infernale a tre teste: Cerbero. Inoltre faceva parte delle piante, che crescevano nel giardino dell’Ade, sacre a Ecate, la dea greca della magia e della stregoneria. Così Ovidio descrive il mito nelle Metamorfosi (VII, 404-419):
…Dopo aver pacificato col suo valore l’istmo / fra i due mari, giunse Teseo, ancora sconosciuto al padre. / Per farlo morire Medea prepara l’aconito / che aveva portato con sé dalle terre di Scizia, una pozione. / ‘E un’erba questa che si dice nata dai denti del cane / di Echidna. C’è una spelonca, il cui ingresso è occultato / dalla foschia: qui lungo una via scoscesa, Ercole, l’eroe / di Tirinto, trascinò fuori, stretto in catene d’acciaio, Cerbero, / che s’impuntava e storceva gli occhi non sopportando / gli accecanti raggi del sole: dibattendosi come una furia / per la rabbia, il mostro riempì il cielo di un triplice latrato, / cospargendo l’erba dei campi di bava bianchiccia. / E si pensa che questa, coagulandosi, trovasse alimento / nella fertilità del suolo e divenisse un’erba velenosa, / che nasce rigogliosa in mezzo alle rocce, ed è chiamata per questo / aconito dai contadini…
Dioscoride nel De materia medica e Teofrasto nell’Historia plantarum affermavano che aveva il potere di paralizzare uno scorpione. Nell’antica Roma venne limitata la sua coltivazione per il largo uso che se ne faceva come veleno (Plinio la descrive in maniera assai dettagliata nel Naturalis historia). Nel Medioevo fino a tutto il Rinascimento, l’aconito veniva usato nelle ricette della stregoneria europea sia come unguento che come incantesimo. Questa pianta è trattata ampiamente da tutti i grandi scrittori di erbari del XV, XVI, XVII e XVIII secolo (da Fuchs a Mattioli, da Clusius a Besler fino a Linneo), non ultimo John Gerard nel suo Herbal pubblicato a Londra nel 1597.
Bisogna riconoscere che, mettendo da parte tutto il folclore, le fumisterie e le messe in scena delle cerimonie magiche, l’aconito era la pianta sulla quale le streghe, le fattucchiere, gli stregoni e gli avvelenatori fondavano i loro poteri. Questa è la pianta che dà la morte, che addormenta, toglie il respiro, inebetisce, non il fiele di rospo o il dente di serpente e gli altri più o meno decorativi ingredienti della tradizione esoterica: ne deriva, su questo argomento, una certa reticenza nella tradizione orale (si tratta di un vero segreto, per quanto semplice) e al tempo stesso una ricca pubblicistica, che va dal mito alla letteratura, alle storie popolari. Inoltre particolare non di poco conto è che questa pianta, a differenza di altre ranuncolacee, non perde le sue proprietà venefiche con l’essiccazione (anche se l’intensità dell’azione tossica diminuisce): è dunque un veleno disponibile in ogni momento. Ho notato, inoltre, studiando l’areale di questa pianta (in Italia: la Liguria, tutto l’arco alpino e poche località appenniniche), che esso corrisponde con le località dove si sono tenuti la maggior parte dei processi alle streghe e la loro esecuzione: il che farebbe pensare proprio all’uso dell’aconito nelle pratiche magiche.
Anche la letteratura è stata attratta da questa splendida pianta. Viene più volte nominata da Shakespeare nelle sue tragedie. Il Tasso riporta l’aconito nella creazione delle erbe tossiche in Le sette giornate del mondo creato:
Nacque col grano la cicuta insieme;
con gli altri cibi immantinente apparve
l’elleboro, e il color fu bianco e negro.
Apparve noto alla matrigna ingiusta
Poi l’aconito; e non rimase occulta
La mandragora in terra e non s’ascose
il papaver che sparge ‘l grave succo.
Gabriele D’Annunzio, particolarmente sensibile a questa pianta, conosceva la tintura d’aconito con la quale curava i suoi terribili mal di denti. Nell’Undulna dice:
Azzurre son l’ombre sul mare
Come sparti fiori d’aconito.
Il lor tremolio fa tremare
l’infinito al mio sguardo attonito.
L’utilizzazione razionale dell’aconito in medicina inizia nel 1763 da parte di Anton Stoerck che propose di utilizzarlo per alleviare i dolori reumatici e nevralgici. Nel 1845 Alexander Fleming descrisse gli effetti tossici dell’aconitina (l’alcaloide caratteristico dell’aconito) mortale in dosi da 1 a 4 milligrammi. Dapprima eccita e poi paralizza i centri nervosi, la morte avviene per paralisi respiratoria o arresto cardiaco. Per questo motivo è stato quasi abbandonato dalla moderna medicina, ma in fitologia è ancora usato per il suo effetto analgesico, sedativo ed antinevralgico e viene impiegato per il trattamento locale del trigemino. Viene usato frequentemente in omeopatia, soprattutto per il trattamento delle malattie da raffreddamento con febbre, di nevralgie e di disturbi cardiaci.
Moltissime sono le leggende che fioriscono intorno all’aconito in molte parti del mondo: dal Giappone al Tibet, dalla Cina all’Europa. I danesi lo chiamano “elmo di Troll”, i tedeschi “elmo di ferro”, i norvegesi “cappello di Odino”, gli inglesi ed i francesi “cappuccio del monaco” (a seguito dell’evidente avanzata del Cristianesimo); dal tipo di nomi emerge chiaramente come la voce popolare privilegiasse l’aspetto della pianta rispetto alle sue doti venefiche. Nel dialetto piemontese, invece, la pianta viene chiamata ciancia d’osta ovvero “racconto dell’ostessa” ad indicare un effetto narcotico dovuto ai fumi dell’alcol.
L’uso migliore che se ne potrebbe fare è coltivarlo nei nostri giardini (le piante di aconito coltivate sono molto meno tossiche di quelle selvatiche), la sua bellezza merita un’attenzione particolare ed infatti alcuni vivaisti iniziano a proporlo; l’ho visto in vendita alla Conserva della neve, la rassegna che si è tenuta a Roma al Parco dei Daini nel settembre scorso, ed anche se il colore blu del fiore risulta meno profondo è sempre bellissimo.
Beatrice Venturini Sylos Labini
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