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Elogio delle erbacce: il verbasco

Verbascum thapsus

Verbascum thapsus.Foto di Beatrice Venturini Sylos Labini.Abbazia di Novacella

Quando decisi di scrivere una serie di articoli per l’A.E.R., presi in considerazione le piante che avessero, come carattere fondamentale l’essere spontanee e che, quindi, crescono dove e come vogliono senza l’aiuto dell’uomo, ma anzi, proprio per questo sono invise al genere umano. Ecco spiegato il dispregiativo che si accompagna spesso a queste piante, senza tener in alcun conto la loro utilità.

Un’altra caratteristica le contraddistingue: l’essere vagabonde. Le piante, infatti, viaggiano: in particolar modo le “erbacce”. Si spostano in silenzio, soprattutto in balia dei venti, ma per organizzare il trasporto ogni mezzo viene preso in considerazione: dalle correnti marine alle suole delle scarpe. La gran parte del viaggio spetta agli animali: la natura sceglie gli uccelli che si nutrono di bacche, le formiche giardiniere, le pecore (il cui vello racchiude campi e campi di sementi). E poi l’uomo, animale tormentato in continuo movimento.

Uccelli, formiche, funghi, insetti e semi non riconoscono le frontiere che separano il terreno sottomesso ad un regime poliziesco da uno sciocco giardiniere dal terreno selvaggio, perché per loro tutto è abitabile.

È per questo motivo che spesso, nelle nostre passeggiate, nei posti più disparati rincontriamo la stessa piantina che aveva attirato la nostra attenzione e così ci accorgiamo che la semina è avvenuta in maniera del tutto spontanea.

Ho incontrato il verbasco a 3000 m di altitudine sul Gran Sasso in Abruzzo, nell’Hortus Conclusus dell’Abbazia di Novacella in Alto Adige, nella campagna laziale ed in quella umbra, in tutte le isole del Mediterraneo, nel Foro Romano, a Villa Adriana ed ultimamente a Bari con una forma particolare a candelabro.

Esistono più di trecento specie di verbaschi, appartenenti alla famiglia delle Scrophulariaceae. In Italia se ne contano 13, ma numerose sono le varietà e gli ibridi.

Ritengo che questa pianta sia particolarmente interessante, non solo per i suoi splendidi fiori ed il suo aspetto vellutato, ma anche per le numerose proprietà medicamentose. La sua radice a fittone è una carota bianca straordinariamente forte da cui la pianta rinasce qualunque sia la mutilazione inferta per estirparla; alla sommità di questa radice nascono foglie grandi e vellutate di un color grigio chiaro, disposte a rosetta. La rosetta è una forma stellata che permette alla pianta di passare l’inverno a livello del terreno e caratterizza l’apparato vegetativo delle piante biennali: scompaiono tutte non appena il fiore appassisce ed i semi vengono dispersi.

Nel primo anno la radice produce la rosetta descritta sopra, mentre nel secondo anno nasce il fusto floreale, alto fino a 2 metri, con foglie decorrenti che tendono a rimpicciolirsi verso l’alto. Fusto e foglie sono ricoperte da una peluria bianco-giallastra, caratteristica tipica delle piante che contengono mucillagini, in modo da essere protette dall’eccessiva evaporazione. Nella parte superiore del fusto appaiono numerosi fiori giallo-oro con 5 petali ovali che si aprono a raggiera.

 

Le parti utilizzate del verbasco (Verbascum thapsus), come suggerito dai vari erbari di tutte le epoche, sono le seguenti: i fiori, dal profumo di miele, aromatizzano i liquori e forniscono una crema emolliente per la pelle. Le foglie e i fiori, espettoranti ed antispasmodici, sono usati per curare la tosse secca e per preparare un tabacco di erbe medicinali. La moderna ricerca ha confermato l’attività antitubercolare degli estratti della pianta. Il fumo delle foglie veniva utilizzato dagli indiani d’America per stimolare le emozioni. I fiori riducono le infiammazioni dovute all’eczema e sono cicatrizzanti; l’olio ottenuto dai semi cura l’orticaria e le screpolature della pelle; la radice è diuretica; la tintura omeopatica cura l’emicrania e il mal d’orecchi. I peli delle foglie sono adatti per preservare gli indumenti, per accendere il fuoco e come bendaggio di emergenza. Gli steli seccati e immersi nella pece forniscono torce di lunga durata, mentre le capsule mature sminuzzate e gettate nell’acqua stagnante sono usate per stordire i pesci nella pesca di frodo.

Per tutte queste sue straordinarie proprietà, il verbasco trova sempre un posto d’onore nei testi dei rimedi erboristici dei più famosi botanici di tutti i tempi: da Teofrasto a Plinio il Vecchio, da Dioscoride ad Apuleio, da Galeno a Castore Durante, da Brunfels a Fuchs, da Bock a Dodoens, dal Mattioli all’Aldrovandi, da Clutius a Besler fino alla moderna fitoterapia.

 

Tavola ad acquarello di Mary McMurtrie

Tavola ad acquarello di Mary McMurtrie

Dalla “Flora d’Italia” di Sandro Pignatti si constata che la specie ha un vasto areale europeo-caucasico e vive in ambienti disturbati, come incolti o ruderi. Ippocrate e Dioscoride conoscevano già le sue virtù emollienti: il decotto dei fiori cura le affezioni delle vie respiratorie ed è un valido diuretico e sudorifero. E’ anche antispasmodica, diventando utile contro aritmie cardiache. Gli impacchi sulle articolazioni affette da reumatismi e le applicazioni sulla pelle per curare ulcere, piaghe e scottature erano ampiamente utilizzati dalla medicina popolare.

Non si conosce con esattezza l’etimologia del suo nome; verosimilmente deriva dal latino barbascum, barba, per la lanugine che ricopre gli stami, i fusti e le foglie di molte specie; lo specifico thàpsus, secondo Dioscoride, va riferito ad un’isola, Thàpsia, dove questa pianta (Verbascum thapsus) fu notata e descritta la prima volta. È più probabile, però, che derivi dal greco thapsos cioè giallo per il colore dei fiori.

Altre specie, oltre al già nominato Verbascum thapsus ovvero Tasso-Barbasso, sono il Verbascum undulatum a foglie ondulate; il Verbascum nigrum con foglie molto grandi; il Verbascum phoeniceum con fiori porpora-violacei; il Verbascum floccosus con coperture lanuginose molto visibili, che servono a dissuadere gli erbivori; il Verbascum sinuatum in cui lo stelo florale presenta molti rami ascendenti a forma di candelabro.

Una curiosità: con le foglie fresche i Romani avvolgevano i fichi per una loro più lunga conservazione e con le stesse, essiccate, confezionavano stoppini per le lampade ad olio.

 

Il verbasco ha ricevuto anche gli onori della letteratura nel capitolo XXXIII dei “Promessi Sposi”, quando il Manzoni descrive la vigna di Renzo con una maestria ed una conoscenza tale da far emergere, non solo, il carattere del sommo scrittore, ma anche del grande botanico: “Diede un’occhiata in giro: povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna… Viti, gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però ancora i vestigi dell’antica coltura: giovani tralci,in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de’ filari desolati: qua e là, rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza l’aiuto della man dell’uomo. Era una marmaglia di ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene selvatiche, d’amarantiverdi, di radichielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sulterreno, a rubarsi insomma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l’uva turca, più alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni, verde cupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all’aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne’ rami, nelle foglie, ne’ calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli: là una zucca selvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era avviticchiataai nuovitralci d’una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all’altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitar stesso, pareva che fosse li per contrastare il passo, anche al padrone.

 

Per la raffigurazione ho scelto un acquarello della botanica scozzese Mary McMurtrie, che fino agli ultimi giorni della sua lunga vita ha continuato a coltivare, studiare e dipingere le piante selvatiche della Scozia, dell’Algarve e del Kenya sapendo infondere nelle sue opere qualcosa di magico.

I verbaschi si lasciano ammirare da lontano, a volte soli, altre volte in file serrate, con “l’aria gloriosa e indolente delle specie di grossa taglia, venute per caso. Non fanno che spostarsi.”(Gilles Clèment).

 

Beatrice Venturini Sylos Labini